Gaber Jannacci

Questa è (solo) una favola – Parte prima

Questa è solo una favola, una di quelle che si leggono sui libri ben rilegati di una volta, quelli con la copertina rigida, scritti con caratteri grandi e tondi, con le pagine un po’ ruvide e con quell’odore inconfondibile che solo a pensarci ci vengono i brividi di piacere (ebbene si, siamo un po’ bibliofeticisti)
È una favola un po’ lunga, quindi oggi pubblichiamo la prima parte, per la seconda bisognerà aver pazienza ed aspettare lunedì.

C’era una volta un re, un re senza regina, ma con tante dame; un re senza corona, ma con vassalli, valvassori e valvassini; un re senza erede, ma con tanti figli e figliocci e figlie e figliocce; c’era una un re che non aveva niente per cui essere felice, ma sorrideva sempre.
Ogni mattina si alzava apriva la finestra della sua splendida camera del suo splendido palazzo e guardava soddisfatto il suo regno, pieno di luce e di sole, bello come Dio glielo aveva dato e sorrideva. Poi il re andava in bagno, si vestiva di tutto punto, scendeva a fare colazione e sorrideva a tutta la servitù. Poi si spostava in una grande sala piena di arazzi con scene di gloria e di potere e riceveva i suoi consiglieri e tutti sorridevano perché il re sorrideva, anche se non c’era proprio niente da ridere: in quel paese così bello c’erano molti poveri e pochi ricchi, molti poveri di cervello, pochi ricchi di intelligenza, ma tutti si erano abituati e vivevano tanto per vivere, facendo finta che il loro fosse il miglior mondo possibile.
Ogni mattina, prima di iniziare con i “punti all’ordine del giorno”, il re raccontava una barzelletta divertente, così tanto per “scaldare l’atmosfera”e tutti dovevano ridere forte, perché la prima legge di quel paese era che tutti, ma proprio tutti DOVEVANO ESSERE FELICI e soprattutto dovevano farsi vedere felici dagli altri. Vigeva ferrea la politica della felicità e dell’amore.
Ogni mattina, dopo la barzelletta e le sonore risate il re ascoltava i suoi consiglieri: “Sire, il popolo è stanco, non vuole più coltivare solo il riso, vogliono mangiare anche altro, stanno diventando tristi”. E il re rispondeva: “Ma a me piace il riso, il riso fa bene, è facile da digerire…e poi bisogna consumare tutto lo zafferano dei miei campi. Niente da fare, scrivi: da oggi per legge, per un anno intero, tutti dovranno mangiare almeno… una volta al giorno riso con lo zafferano!”.
Il consigliere alzò gli occhi al cielo, come a chiedere che il Padre Celeste da lassù lo facesse ragionare (almeno pure il riso al pomodoro!), ma a Dio sembrava non importare nulla o magari aveva altro da fare e la legge fu comunicata al popolo.
Da principio tutti scoppiarono in una fragorosa risata, perché pensavano fosse uno scherzo, allora il re disse al consigliere “Lo vedi, sono contenti, mi amano e mi stimano perché li faccio felici!” e così dicendo rientrò a palazzo.
Quando però la gente capì che non era uno scherzo e che davvero avrebbero dovuto mangiare riso allo zafferano per un anno intero, almeno una volta al giorno, non la presero tanto bene. Gridarono, si arrampicarono sui muri del castello per parlare con il re, ma lui era già andato a letto e sognava il suo ridente paese e il suo ridente popolo, anzi quella sera pensò proprio di essere un re fortunato, al suo popolo piacevano tutte le cose che piacevano a lui, per questo lo amavano!

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